La parola hacking da qualche tempo va di moda per l’incremento di attacchi informatici, che stanno avvenendo in tutto il mondo. A parte rari casi, si pensa che sia un fenomeno nato e cresciuto recentemente. In realtà affonda le sue origini già dal 1878. Engineering & Technology ha illustrato una breve panoramica di come sono nate e si sono sviluppate queste pratiche, nel corso dei secoli. I primi episodi ci sono stati a partire dall’invenzione del telefono. All’inizio i centralinisti erano giovani ragazzi, in quanto avevano già operato con i telegrafi. Questi, però si divertivano a fare scherzi e a capire più come funzionasse il sistema che a lavorare. Tanto che nel 1878 la Bell dovette cacciarne un gruppo da New York per aver ripetutamente e intenzionalmente scollegato conversazioni e collegato utenti sbagliati per gioco. Da allora la compagnia assunse solo impiegate donne per quel ruolo. Il secondo caso della storia hacking si ebbe dopo la scoperta delle onde elettromagnetiche alla fine del 19esimo secolo. Questa pavimentò la strada per il telegrafo senza fili di Guglielmo Marconi. Nel 1903 il mago e inventore Nevil Maskelyne sabotò la prima dimostrazione pubblica di John Ambrose Fleming della tecnologia “sicura” dell’apparecchio inventato da Marconi. Lo fece inviando messaggi in codice Morse che screditavano il sistema. A seguito di ciò, Fleming inviò una lettera al Times in cui chiedeva aiuto ai lettori per smascherare il colpevole del gesto. Maskelyne rispose affermando che il suo era stato un gesto per rivelare la vulnerabilità del telegrafo senza fili. La parola “hacker” ha origini antiche e, inizialmente, non aveva alcuna connotazione negativa. Nei primi anni del XX secolo, il termine si riferiva a qualcuno capace di trovare soluzioni innovative a problemi tecnici. È negli anni Sessanta, al Massachusetts Institute of Technology (MIT), che il termine “hacker” si lega al mondo dell’informatica. Qui, un gruppo di giovani programmatori e tecnologi appartenenti al Tech Model Railroad Club (TMRC) iniziò a smanettare con i primi computer disponibili, come il PDP-1, cercando modi creativi per utilizzare le macchine al di là delle loro intenzioni originali. Non era una questione di distruzione, ma di esplorazione: per gli hacker del tempo, la tecnologia rappresentava un terreno di gioco da comprendere e sfruttare al massimo. In questa fase, gli hacker erano pionieri della conoscenza. Si prefiggevano di superare i limiti imposti dalla tecnologia, sfidando le convenzioni e migliorando i sistemi esistenti. Alcuni tra i primi “hack” documentati non riguardavano l’informatica come la intendiamo oggi, ma i sistemi telefonici. Negli anni Settanta, la “phreaking” – abbreviazione di “phone hacking” – divenne una delle prime forme di hacking digitale. Figure come John Draper, conosciuto come “Capitan Crunch”, scoprirono che soffiando in un telefono con un fischietto incluso in una scatola di cereali si poteva manipolare la rete telefonica AT&T per effettuare chiamate gratuite. Questo tipo di hacking era visto come un atto di ribellione contro il sistema, ma anche come un’opportunità per sperimentare. Con l’avvento dei personal computer negli anni Settanta, l’hacking si spostò rapidamente dai sistemi telefonici ai computer veri e propri. La comparsa del MITS Altair 8800 nel 1975 e, successivamente, dell’Apple I e II, segnò un punto di svolta. Era l’epoca dei computer a scheda singola, con capacità limitate ma sufficienti per affascinare menti curiose. Gruppi di appassionati si riunivano nei cosiddetti “computer club”, come l’Homebrew Computer Club in California, dove figure come Steve Wozniak e Steve Jobs iniziavano a plasmare il futuro dell’informatica. In questo contesto, gli hacker erano ancora principalmente esploratori e inventori. Tuttavia, la comparsa delle prime reti – come ARPANET, il predecessore di Internet – creò nuove opportunità per il loro operato. Alcuni hacker iniziarono a infiltrarsi nei sistemi non per danneggiarli, ma per studiarli. Un esempio è Kevin Mitnick, uno dei primi hacker celebri, che negli anni Ottanta diventò noto per le sue intrusioni nei sistemi di telecomunicazione e informatici. Mitnick rappresentava il perfetto esempio di un hacker che univa competenze tecniche a un’incredibile abilità nel social engineering, convincendo le persone a rivelare informazioni sensibili. Tra i primi attacchi informatici documentati ci fu il “Morris Worm” del 1988, considerato il primo worm diffuso su larga scala. Creato da Robert Tappan Morris, un ricercatore della Cornell University, il worm non era stato progettato per causare danni, ma per esplorare l’ecosistema di ARPANET. Tuttavia, un errore nel codice fece sì che il worm si replicasse in modo incontrollato, paralizzando migliaia di computer. Questo evento segnò un punto di svolta, dimostrando che i sistemi interconnessi potevano essere vulnerabili a livello globale. Negli stessi anni, altri hacker come Gary McKinnon si distinguevano per i loro attacchi mirati. McKinnon, conosciuto come “Solo”, riuscì a penetrare nei sistemi della NASA e del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti all’inizio degli anni Duemila. Le sue motivazioni, dichiarate in seguito, erano legate alla ricerca di prove sull’esistenza di tecnologie aliene e UFO. McKinnon portò alla luce il concetto di hacker etico o idealista, qualcuno che utilizza le proprie abilità non per guadagno personale, ma per una causa. Negli anni Novanta, con la diffusione di Internet, l’hacking cambiò volto. La comunità hacker si divise: da un lato c’erano i “white hat” (cappelli bianchi), hacker etici che lavoravano per migliorare la sicurezza dei sistemi; dall’altro, i “black hat” (cappelli neri), individui o gruppi motivati da interessi personali, economici o criminali. Fu in questo periodo che nacquero i primi virus informatici progettati per danneggiare i sistemi, come “Michelangelo”, che colpì centinaia di migliaia di computer nel 1992. Un altro esempio di attacco significativo fu quello del gruppo hacker “L0pht”, che nel 1998 testimoniò davanti al Congresso degli Stati Uniti avvertendo che l’intero Internet poteva essere paralizzato in soli 30 minuti. Questo gruppo di hacker etici, pur non avendo intenzioni malevole, dimostrò quanto le infrastrutture informatiche fossero fragili e vulnerabili. Con il nuovo millennio, l’hacking si è evoluto in una vera e propria industria. Gli attacchi informatici non sono più frutto di singoli individui, ma spesso vengono condotti da organizzazioni strutturate, talvolta supportate da governi. Il fenomeno del ransomware, emerso in modo dirompente con attacchi come quello di WannaCry nel 2017, ha dimostrato come l’hacking sia diventato una minaccia economica globale. I cybercriminali moderni mirano a rubare dati sensibili, estorcere denaro o influenzare intere economie. Parallelamente, sono emersi gruppi di hacker come Anonymous, che combinano hacktivismo e attacchi mirati per promuovere cause politiche. Questi gruppi hanno colpito governi, multinazionali e organizzazioni religiose, utilizzando metodi come il DDoS per interrompere i servizi. La storia degli hacker è una storia di creatività, ribellione e innovazione. Da pionieri che esploravano i primi computer a gruppi organizzati che sfruttano le vulnerabilità dei sistemi globali, gli hacker hanno plasmato il mondo digitale come lo conosciamo oggi. La loro evoluzione continua, spingendo governi e aziende a sviluppare tecnologie sempre più sofisticate per proteggere dati e infrastrutture. Tuttavia, l’essenza dell’hacking rimane la stessa: una sfida costante ai limiti della tecnologia, con conseguenze che possono essere tanto costruttive quanto distruttive.
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